di Maria Chiara Carrozza, direttore Scuola Superiore S. Anna e Presidente Forum Università Saperi e Ricerca del Pd

C’è un parallelo tra la proposta del Pd di mandare in pensione 5 anni prima i professori, cioè al compimento dei 65 anni di età, e la necessità di non costringere a un precariato a vita i ricercatori. È che l’esigenza del ricambio in cui credo fermamente, deve accompagnarsi alla possibilità di una prospettiva dignitosa a chi ha investito la sua vita nella formazione e nella ricerca. So che la proposta della pensione a 65 anni sta ricevendo molte critiche. L’obiettivo è provocare un ricambio generazionale nel rispetto dei ruoli. Il presupposto per poter operare questo ricambio è lo sblocco del turn over sul quale si basa la possibilità di immettere giovani ricercatori e docenti all’interno del sistema universitario. Il secondo aspetto importante riguarda la valutazione, i professori inattivi che non scrivono pubblicazioni e non studiano più devono andare in pensione. Chi è ancora attivo e può ancora dare molto all’università potrà restare con contratti finalizzati. Perché soltanto i giovani devono essere valutati? Le statistiche sull’età media del corpo docente in Italia ci dicono che siamo drammaticamente indietro e dobbiamo porre rimedio: la riforma dell’università, il cambiamento di mentalità e di modello, si provoca anche mediante un ringiovanimento dei professori e dei ricercatori. Perché una intera generazione deve pagare il prezzo degli errori di chi la ha preceduta e rischiare di essere tagliata fuori dall’università, schiacciata da una crisi che impone sacrifici.
A proposito di chi deve fare i sacrifici, rendersi disponibile ad essere valutato ed ad essere “mobile”, ricordo che nell’ottobre 2008, il ministro Brunetta affermò che “I ricercatori sono un po’ capitani di ventura, stabilizzarli è un po’ farli morire”. Invece, protrarre il precariato nella ricerca per un numero indefinito di anni senza dare alle persone prospettive dignitose significa la morte, non soltanto dei malcapitati ricercatori, ma anche dello Stato. Le risorse investite nella loro formazione rischiano di essere a fondo perduto se queste persone altamente qualificate sono costrette a “cercarsi qualcos’altro da fare”, come suggerisce il ministro Brunetta.
E allora vi racconto una storia, che mi è stata raccontata da una giovane donna italiana, che rappresenta simbolicamente quella di tanti.
Parla di un precariato durato quasi vent’anni e, benché possa sembrare incredibile, è tutt’altro che insolito nelle discipline umanistiche. Le tappe di questo percorso sono state tante: corso di dottorato, borsa post-dottorato, finanziamenti ministeriali per giovani ricercatori, borse di studio da enti stranieri, assegno di ricerca… Non è su questo, però, che voglio soffermarmi. Quello che voglio far conoscere è l’aberrazione dei contratti di insegnamento, per i quali non esistono regole se non quelle che gli atenei, di volta in volta, si danno.
Questi contratti sono sempre e dappertutto pagati miseramente. Questa è la prima anomalia italiana: all’estero i docenti a contratto vengono pagati più degli strutturati, proprio per sopperire all’assenza di garanzie di stabilità. Ci sono, però, altre ‘stranezze’, molto più preoccupanti. Può capitare, per esempio, che il contratto sia pronto mesi dopo che il corso si è concluso: come la mettiamo, in questo caso, con la copertura assicurativa durante il corso? Inoltre, a un contrattista che viene assunto per tre mesi (e, ribadisco, pagato una miseria) si pretendono le stesse cose che vengono chieste ad uno strutturato.
Ancora più strani i meccanismi di retribuzione. Qui si sfiora l’assurdo. Premesso che il compenso arriva dopo mesi che si è concluso il corso, non soltanto non è dato sapere quando si verrà pagati ma, a volte, neanche quanto. E se l’ateneo si scopre in rosso (e succede!), può tranquillamente decidere di dimezzare i compensi per i contrattisti. E questi non possono rivalersi in nessun modo, tanto più che la decisione arriva quando la maggior parte di loro ha già svolto il corso.
Quello che, però, non soltanto è strano, ma è proprio abominevole, è che può anche capitare che questi contratti siano completamente gratuiti.
Perché si accetta? Per mancanza di alternative. Il blocco del turn over per alcuni settori disciplinari di ambito letterario, è di fatto una realtà già da anni. E gli atenei ricorrono a escamotage (tutti eticamente inaccettabili) per svolgere insegnamenti necessari alle facoltà. I Ricercatori, per esempio, che statutariamente non dovrebbero essere adibiti all’insegnamento, a volte arrivano ad insegnare anche 180 ore.
Insomma, lavorare “a titolo gratuito” e stringere i denti sperando in tempi migliori resta spesso l’unica strada percorribile per chi non è disposto a buttare a mare lo studio e il lavoro di anni e vuole continuare a fare quello che ama e che sa fare.
Dall’altra parte invece c’è chi, ormai dopo i 65 anni, pur totalmente inattivo come docente, continua a essere garantito e a gravare sulle finanze degli atenei impedendo uno sbocco professionale dignitoso ai precari.
Certo che il nostro è proprio un bel Paese.

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