di Giancarlo Caselli

Le intercettazioni sono un metodo di ricerca della prova insostituibile. E’ grazie ad esse che si riesce ad assicurare alla giustizia fior di delinquenti. Se la possibilità di ricorrere alle intercettazioni fosse in un modo o nell’altro ridotta, diminuirebbero di conseguenza sia il numero dei casi in cui è possibile individuare i colpevoli dei più gravi delitti sia la sicurezza dei cittadini. Per risultare efficiente, lo strumento delle intercettazioni deve essere agile, rapido e incisivo. E’ invece all’esame del Senato una riforma che va in direzione contraria. Prevedere che la competenza ad autorizzare le intercettazioni sia non più di un singolo giudice (il GIP) ma di un collegio di tre giudici; stabilire che questo collegio abbia competenza per tutto il Distretto della corte d’appello (in pratica per tutta la Regione); imporre al Pm di trasmettere non una richiesta motivata con gli allegati necessari ma sempre e comunque l’intero fascicolo processuale, magari composto da decine di «faldoni»: ecco tutta una serie di novità che convergono nel senso di una procedura barocca e complicata, con possibilità di gravi pregiudizi per l’efficienza del sistema.

L’impressione è di una irresistibile «antipatia» per le intercettazioni. Solo così si spiega perché occorrano ben tre giudici per autorizzare quello che rimane un semplice ascolto, mentre basta un solo giudice per prendere decisioni ben più gravi, tipo mandare in carcere una persona o condannarla anche all’ergastolo. La tutela della privacy è certamente un problema, ma gli interventi devono essere chirurgici, non tali da gettare a mare gran parte di un meccanismo collaudato che prima di tutto garantisce la scoperta della verità in ordine a una moltitudine di delitti. Non è ragionevole cavalcare ogni giorno il tema della sicurezza pretendendo «tolleranza zero» per poi tollerare che la sicurezza di tutti i cittadini sia sacrificata sull’altare dell’interesse di pochi che hanno da nascondere qualche vizio ubblico o privato. C’è poi il problema della durata delle intercettazioni. Limitarla a 75 giorni per tutti coloro che non siano accusati di mafia o terrorismo ma «soltanto» di essere assassini, stupratori, pedofili, sfruttatori di prostitute, trafficanti di droga, corruttori… significa chiudere il rubinetto dell’acquisizione delle prove. Semplicemente surreale. E la recente idea di proroghe di 48 in 48 ore in base ed elementi ogni volta nuovi sembra un bizantinismo inutile ed impraticabile, escogitato più che altro per provare a difendere l’indifendibile. Infine, posto che la riforma delle intercettazioni comprime anche la libertà della cronaca giudiziaria, c’è il fondato timore che la partita non si possa ridurre a un qualche aggiustamento. Essa riguarda la qualità della democrazia, che senza un vero controllo sociale (cioè senza un’informazione libera) e un efficace controllo di legalità (che comporta una magistratura indipendente) sarebbe condannata a una deriva.

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