Da tempo parliamo di federalismo. Dal 2001, quando il Governo introdusse il principio della proporzionalità diretta con la riforma del titolo V della Costituzione. In un esempio semplice, si ritenne giusto che le imposte che un territorio paga vadano, almeno in parte, direttamente per il benessere di quel territorio, e non al governo centrale.
Un principio condiviso, al di là dell’appartenenza politica e partitica; che fosse un’esigenza questo cambiamento sembra essere pensiero condiviso. La questione, casomai, verte e vede opinioni differenti sul merito.
I nodi da sciogliere sull’attuazione del federalismo fiscale sono seri e fondamentali.
Stiamo vivendo una situazione d’incertezza che rende difficile, per un amministratore locale, compiere scelte lungimiranti per il suo Comune.
E’ complicato progettare un futuro quando il presente non offre garanzie. Anche perché i sindaci, prima di ogni altra istituzione, sono quelli a cui i cittadini si rivolgono, sono coloro a cui la gente chiede spiegazioni e conferme. Le nostre comunità ci chiedono risposte che, oggi come oggi, di fronte a un quadro in perenne mutamento, il nostro senso di responsabilità ci impedisce di dare con sicurezza.
Sebbene l’insicurezza condizioni ogni ambito dell’azione amministrativa di un ente locale, la mancanza di un orizzonte comune, collettivo e condivisibile, provoca una sensazione di disagio e di impotenza ancora più forte nel settore delle politiche sociali.
Fra i decreti attuativi del Federalismo già approvati, vi è quello sui fabbisogni standard, ovvero i nuovi parametri con cui stabilire il finanziamento delle spese fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province, per assicurare il superamento del criterio della spesa storica.
Un principio che, sulla carta, potrebbe funzionare, poiché incentrato sull’abbandono del sistema di finanza derivata e sull’attribuzione di una maggiore autonomia di entrata e di spesa a enti locali e Regioni, nel rispetto dei principi di solidarietà e di coesione sociale.
I continui tagli ai bilanci regionali e comunali, affiancati dalla mancanza di finanziamenti nazionali, fa vacillare l’impostazione stessa del criterio dei fabbisogni standard, poiché l’incertezza in cui ci muoviamo rischia di causare discriminazioni tra i territori e di imporre ad alcuni Comuni di ridurre i servizi o di aumentare la pressione fiscale.
Un’ipotesi che potrebbe diventare concreta, viste le difficoltà degli enti locali, costretti a fronteggiarsi fra continui tagli e un patto di stabilità anacronistico data la delicata congiuntura economica che il nostro Paese sta vivendo. Per questo, infatti, i sindaci di tutta Italia protestano.
Nella Conferenza delle Regioni e delle Province autonome sulle politiche sociali, dello scorso 22 settembre, è emerso un quadro socio-economico preoccupante (lo riporto integralmente):
– Confindustria prevede “crescita 0”;
₋ OCSE indica una disoccupazione giovanile al 28%;
₋ Gli organismi della produzione sottolineano la caduta dei consumi;
₋ ISTAT evidenzia che nel 2011 un italiano su quattro è povero (24,7% della popolazione);
₋ UNICEF pone l’Italia agli ultimi posti (insieme alla Grecia) sui 24 Paesi dell’OCSE, per la necessità di implementare gli interventi a favore di minori e adolescenti;
₋ Ancora dai dati ISTAT si registra che nel 2010 sono nati 15 mila bambini in meno rispetto al 2009;
₋ La composizione della spesa per la protezione sociale vede rispetto all’Europa una netta prevalenza della previdenza a scapito delle politiche per la famiglia (l’Italia scende al 20 posto in Europa nel rapporto PIL investimenti a favore delle politiche sociali);
₋ Gli economisti italiani aggiungono al quadro “la fine delle Politiche Sociali”.
Le risorse statali destinate al sostegno dei diritti sociali sul territorio hanno subito continui tagli dal 2008 ad oggi; basti pensare che, stando a un documento della commissione affari sociali e welfare dell’Anci, il fondo nazionale per le politiche sociali, nel 2008, era costituito da 656,45 milioni di euro e nel 2011 è diventato di 178,58 milioni di euro. Il fondo per la famiglia è passato da 339 milioni di euro a 51,47 di quest’anno. Il fondo per la non autosufficienza sta andando verso l’esaurimento. Tagli significativi anche al fondo per l’infanzia e l’adolescenza, per il servizio civile, per l’accesso alle abitazioni in locazione e per la famiglia.
Stando sempre alla riflessione compiuta dalla Conferenza, è emerso anche che il mancato rifinanziamento del Fondo per le Non Autosufficienze ha tolto benefici ad oltre 50.000 anziani così come i tagli subiti al Fondo Minori e Famiglie, impediranno la conservazione dei benefici in atto: almeno 20.000 nuovi nati non avranno la possibilità di entrare nei nidi di infanzia o di avere servizi dedicati. In sintesi, i tagli alle Politiche Sociali – cito il documento della Conferenza – produrranno questi effetti:
₋ Impoverimento delle famiglie, particolarmente quelle con figli;
₋ Eliminazione di nuovi ingressi ai nidi e alle scuole materne con grossi problemi per le famiglie e per le donne lavoratrici;
₋ Diminuzione delle prestazioni per i disabili;
₋ Riduzione dell’assistenza domiciliare e residenziale agli anziani e ai non autosufficienti per i quali saranno diminuiti anche i supporti per il lavoro di cura privato, con l’aumento di uso inappropriato del Pronto Soccorso e di posti ospedalieri;
₋ Ricaduta sui Lea sociosanitari delle limitazioni alla spesa sanitaria, che con l’aggravio dei tagli al sociale, avrà diretta influenza sui costi dei servizi integrati per minori, disabili e anziani;
₋ Impossibilità a avviare strutture costruite ex novo o riattivate;
₋ Estrema criticità a collegare misure di supporto sociale agli interventi per l’avvio al lavoro;
₋ Aumento delle marginalità che andrà ad influire sull’incremento del disadattamento e della criminalità.
Inseriti in questo contesto, almeno per il quadro che possiamo realizzare oggi, parlare di fabbisogni standard per le politiche sociali e per un welfare che sia propositivo, dinamico e non mero assistenzialismo appare complicato.
Tagliare indiscriminatamente, senza tenere conto delle peculiarità di alcuni servizi, delle caratteristiche dei territori e della qualità che un sistema integrato e coordinato può mettere in gioco non traduce in realtà un federalismo fiscale auspicabile.
Auspicabile è garantire qualità e quantità, competenza ed efficacia, a costi contenuti. Fare di tutta un’erba un fascio, soprattutto quando si tratta di politiche sociali, risulta pericoloso.
Per questo Anci e Federsanità, in Toscana, stanno lavorando fianco a fianco con la Regione. Nella nostra regione, abbiamo creato un sistema sociosanitario territoriale che rappresenta una possibilità vera di sviluppo dei servizi e dell’adeguatezza degli stessi, razionalizzando le risorse.
Un processo che potrebbe rivelarsi virtuoso, ma che ad oggi si scontra, pure lui, con l’incertezza e l’impossibilità di compiere passi in avanti significativi a causa del quando normativo nazionale in continuo mutamento.
Abbiamo bisogno di risposte certe, di camminare su un terreno stabile perché dobbiamo compiere scelte importanti. Oltre alla partita complicata del federalismo fiscale, dei tagli e del patto di stabilità, dobbiamo prendere atto del cambiamento di paradigma: il mutamento avvenuto nei bisogni di salute della popolazione toscana e nella sua struttura demografica. Potremmo dire forse un po’ banalmente, invecchiamento e cronicità della popolazione: queste nuove “epidemie” si combattono solo parzialmente con i servizi sociali e sanitari.
Se persistono scelte di tagli continui e indiscriminati da parte del Governo, la partita dei fabbisogni standard, almeno per le politiche sociali, potrebbe addirittura non essere disputata.