Accanto alla voce cantautore solitamente compare la definizione poeta. Esatto, a grandi linee, ma riduttivo. L’opzione più corretta, come valore aggiunto a quel tipo di professione già di per sé assai particolare, sarebbe quella di artista a tutto tondo o, volendo essere ancora più precisi, di autore di «quadri musicali». Un vestito perfetto e confezionato su misura per una leggenda vivente come Francesco De Gregori il quale da quarantacinque anni non finisce di stupire in virtù di una creatività pressoché priva di confini spazio-temporali. Ciascuna sua opera viene appesa alla parete culturale dell’umanità esattamente come un dipinto nella pinacoteca della Storia. E per ogni creazione la libertà assoluta di soggettiva interpretazione. Come per l’ultimo lavoro Sulla strada le cui canzoni, il Primo Maggio, potranno essere godute dalla gente di Capannori dove «Il principe» terrà il suo concerto prima di trasferirsi a Firenze dove è atteso, già in sold out, per la successiva performance di primavera.
Questa volta, il Primo Maggio, lontano dal grande raduno romano a favore di una scelta minimalista. Ha un significato preciso questo tipo di scelta? «Letta a posteriori sicuramente sì, anche se di fatto non è stata premeditata. A Capannori mi hanno chiamato e io ho accettato senza manco riflettere sul fatto che sarebbe stato il Primo Maggio ovvero la Festa del Lavoro e dei lavoratori per celebrare la quale il mondo della musica italiana si raduna per una Woodstock romana. Una kermesse alla quale ho partecipato tante volte, alcune delle quali insieme con Lucio Dalla, dove il tentativo da parte degli organizzatori di mettere insieme artisti e musiche diverse è positivo in assoluto sul piano dell’intenzione. Peccato, però, che poi fatalmente i tempi televisivi vadano per forza di cose a condizionare quelli della piazza rendendo il tutto un poco finto e artificioso. Lo dico senza fare polemica, naturalmente. In ogni caso sono felice di poter suonare e cantare a Capannori proprio per dimostrare che De Gregori il Primo Maggio c’è. Una festa che anche artisticamente non è soltanto a Roma, ma in ogni angolo d’Italia».
Ebbene, allora, «Viva l’Italia». Se le toccasse oggi, riscriverebbe quella canzone allo stesso modo e con i medesimi contenuti? «Diciamo che non potrei più scriverla e che se allora non l’avessi pensata a quel modo sarei stato diverso da quel che ero e sono. È vero che Viva l’Italia parte da un dato di cronaca, ma poi si sviluppa all’esterno dell’attualità storica. Per questo è sempre…attuale e mi viene richiesta ad ogni concerto».
Dopo Capannori, Firenze. Una città per lei, diciamo così, nevralgica. «Il luogo dove nacque mia mamma. Si chiamava Grechi che, poi, per un certo periodo era diventato il cognome di mio fratello Luigi il quale, come artista, soltanto adesso ha deciso di farsi chiamare anche lui De Gregori. Ma Firenze è anche altro, per me. Molto altro».
Ad esempio? «Il gioco della memoria che va a pescare lontano nel tempo. Quel maledetto 1966 con i suoi giorni dell’alluvione. La mia scuola, a Roma, ci portò a Firenze per spalare il fango insieme agli altri volontari arrivati da tutto il mondo. In città trovai mio padre che era stato convocato dal professor Casamassima per tentare di salvare il salvabile alla Biblioteca Nazionale. Poi arrivò anche mio fratello Luigi. Ci ritrovavamo la sera, sporchi e sfiniti, per mangiare un boccone. Papà ed io, a fine cena, ci accendevamo una sigaretta. Era la prima volta che mi permetteva di fumare in sua presenza».
I tetti di Firenze. Caterina, la prima delle sue tante figure femminili dipinte con così grande intensità. «Le donne meritano questo omaggio. Sono fantastiche. Caterina, poi, lo era ancora di più. Lei era la Bueno, una fra le cantanti e autrici più potenti e coinvolgenti che abbia mai avuto la fortuna di conoscere. Ero un ragazzo di diciotto anni, suonavo la chitarra neanche troppo bene e lei mi volle come strumentista del suo gruppo. Due anni con lei fantastici. Era istinto puro, Caterina. Una donna con le palle, tanto per rendere bene l’idea. Tant’è le cinquecento catenelle d’oro della mia canzone sono un cameo in omaggio e appartengono ad una sua opera popolare. Ecco, Firenze per me è tutto questo oltre a infiniti ricordi molto privati che mi piace custodire dentro di me».
È dunque anche Firenze «città per cantare» idealizzata da lei e Dalla eppoi interpretata da Ron? «Anche lei. Come tutte le altre, da Milano a Brindisi. In quelle due ore di concerto ciascuna città, coperta dalla musica, diventa identica a tutte le altre. Una forma di globalizzazione positiva, insomma». A che punto di cromatismo musicale è arrivata la sua produzione? «Mica sono Picasso. Magari! Le rispondo come faceva Fellini: guardate che io continuo a fare il mio solito filmettino…La verità e che sia nello Sceicco bianco eppoi in Ginger e Fred esisteva sempre il medesimo spirito dell’autore».
Senta, Francesco. Ma il celebre «Nino» ha finalmente imparato che non è da un calcio di rigore che si giudica un giocatore? «Non l’ha imparato perché lo ha sempre saputo. Vede, io non ho mai detto che Nino avrebbe sbagliato il rigore. Gli suggerivo solamente di calciare sereno senza preoccuparsi perché l’importante era avere un obbiettivo». Se la sente di parlare di Lucio Dalla? «Non solo me la sento, ma ne vado fiero. Un uomo, semplice e onesto che ha lasciato una traccia profonda nella mia vita non solo sotto il profilo artistico e professionale. Una fonte di gioia e di allegria interiore che ci portava, insieme, a compiere piccoli miracoli come quello, per esempio, di cantare per tre ore senza più sapere se una canzone era la mia oppure la sua. Si chiama comunione».
A giugno tornerà Vasco Rossi. Qualcuno diceva che ce lo eravamo giocato… «Sono molto felice per questo suo ritorno. Nella vita di tutti i giorni ci saremmo incontrati mezza volta ma questo non ha impedito a me di inserire in un mio album Vita spericolata e a lui di cantare Generale. Tanto di cappello ad un artista che, per valenza, è paragonabile soltanto a Sinatra, Presley e Dylan». Tra i suoi numerosi sodalizi artistici, va ricordato quello con Baglioni a Lampedusa nel quadro della meritevole «O’Scià».
Cosa le è rimasto di quell’esperienza? «Il desiderio che Baglioni possa continuare anche in futuro e per molti anni a organizzare una manifestazione del genere. Quel giorno, ricordo, aveva attraccato una caretta del mare piena di disperati. Naturalmente non li vedemmo perché quei poveracci avevano bisogno di pane, di acqua e di medicine più che non di musica. Ma il solo fatto di essere lì in quel momento per una ragione di solidarietà ci faceva sentire importanti e felici. Un aiuto, insomma, agli stessi lampedusiani i quali con grande senso civico e umanitario hanno deciso di mettersi sulle spalle un fardello che, di fatto, non toccherebbe loro portare come una croce». Francesco, nome di grande attualità e di enorme fascino emotivo. «Non per merito mio, ma lo porto con grande orgoglio. E sa perché? Per una ragione molto semplice e anche unica. Significa libero».

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