Il Tirreno
Remo Bodei rappresenta l’anima laica di Pisa, dove ha insegnato per decenni storia della filosofia ed estetica all’Università statale e alla Scuola Normale Superiore. Decenni durante i quali è stato anche “visiting professor” presso le università di Cambridge, Ottawa, New York, Toronto, Girona, Città del Messico. Nel 2006 si è trasferito infine a Los Angeles dove insegna alla Ucla. Sulla felicità pubblica e privata ha scritto diversi libri.
E ne ha diffusamente parlato in numerosi convegni, leggendo e studiando a fondo il grande pensiero occidentale.
Professore, che cos’è la felicità?
E’ un momento in cui il tempo, che è come sabbia che fugge, si sospende. Dall’antichità fino all’ottocento i termini “felicità” ed “eternità” erano quasi sinonimi. Noi siamo abituati a considerare l’eternità come un tempo lunghissimo, e quindi sulla base della durata, mentre significa “pienezza di vita” e può durare un attimo-atomo. In questo, felicità ed eternità coincidono: sono al di fuori del tempo, e dal senso malinconico e depressivo della caducità, per cui tutto passa e se ne va. Ed allora la felicità è anch’essa pienezza di vita, il sentire almeno per un certo periodo che il mondo è bello e la nostra vita meravigliosamente armonica, sia nei confronti di noi stessi che nei confronti degli altri. La felicità è l’essere in sintonia e in amicizia con sé stessi nei momenti culminanti.
C’è un interrogativo che chiunque si pone: come raggiungere la felicità?
La felicità non arriva a comando. Uno non può dire a sé stesso: sii felice. Una cosa è la serenità che è un po’ come la calma piatta e il cielo azzurro, e ci dà sostanzialmente una tranquillità dell’animo. E’ qualcosa di gradevole ma non è la felicità, che invece rappresenta dei vertici, dei picchi, come un diagramma le cui punte toccano l’altezza maggiore. Noi viviamo in una realtà, fatta di prestazioni spicciole, e la felicità è una specie di moneta d’oro che uno contempla e sminuzza nei giorni. La felicità è un modo di incontrare sé stessi, con il nodo che noi siamo, e noi siamo dei nodi di relazione. Già da bambini l’io non esiste, lo ritagliamo dalla madre e poi dai compagni, dai maestri di scuola. Il nostro io è semplicemente un cantiere in costruzione e allora l’errore, l’infelicità, deriva dal ritagliare dentro questo nodo di relazioni un presunto io in maniera narcisistica, dimenticando che noi siamo fatti dagli altri. La felicità consiste semplicemente in questo riannodare tutti i nostri legami, e nel riscoprire appunto una ricchezza di questi fili che si dipartono e convergono in noi stessi.
Esiste però un tipo di felicità, invidiata da molti, che è per forza di cose solitaria, e coincide con il successo personale…
Certo, vista così, dipende da quello a cui uno mira. Se, ad esempio, ha un’ambizione politica. O uno sportivo che riesce a limare un record di qualche decimo di secondo. Oppure una giovane donna che aspira a fare l’indossatrice, o addirittura a fare il Grande fratello, che per altri è disdicevole. E’ una questione sempre molto personale; soltanto che la felicità inseguita troppo, con parossismo e con insistenza, finisce per produrre effetti negativi. Uno ottiene il suo risultato, e poi conclude: “Tutto qui?” E’ quello che Kant spiegava a un principe russo: “Quando uno cerca la felicità e la raggiunge, si accorgerà che tutto non è tutto”, cioè che qualcosa manca. Quindi, già la predisposizione ad avere tutto, è sbagliata. Invece la felicità vera è quella che non abbiamo cercato e ci arriva come un dono. Siccome la nostra vita è costellata di cose o spiacevoli o addirittura dolorose, questa felicità va ricevuta con la gratitudine dovuta a qualcosa di estremamente fuggevole e raro, e per questo estremamente prezioso.
Tra i filosofi e ipoeti chi si è dedicato maggiormente al tema della felicità?
Ne ha parlato più di altri Aristotele nell’Etica Nicomachea. Diceva: “Sono bugiardi quelli che dicono di non cercare la felicità “. Per Aristotele il piacere regala felicità, ma è persino più fuggevole della felicità stessa, perché spesso non dipende da noi. Un uomo felice è quello che, pur non provando sempre la felicità, riesce a farne un abito, una disposizione d’animo. Poi Dante, nel “De Monarchia” riprende il tema aristotelico e dice che persino nella cultura si deve assorbire per poi restituire. Anche Agostino ha scritto sulla felicità, sostenendo che nel mondo tutto è buono, dal topo all’angelo, e che il peccato è un calcolo sbagliato, perché porta a preferire la creatura al Creatore. Scriveva:“Tu ti preoccupi delle tue scarpe, e di come vesti, e non ti preoccupi della felicità della tua anima dopo che sarai morto. Dio è felicità stessa “. Cos’è interessante in questo pensiero? Non la felicità, come la pensiamo noi miscredenti, di un Paradiso dove non si fa altro che pregare, dove tutto è sempre uguale, e ci si annoia. Agostino vuole dire che nella nostra vita terrena è già tanto se abbiamo delle briciole, ma nel Paradiso Dio ci donerà una felicità in continua crescita; e quindi il compito dell’uomo intelligente, oltre che cristiano, è di non crogiolarsi in una felicità passeggera e momentanea ma di scegliere la fonte vera.
C’è anche chi sostiene filosoficamente che la felicità consista nell’accontentarsi di poco.
Per tanto tempo è stato così. Per esempio, nello stoicismo antico greco dicevano: “Se vuoi essere ricco, sii povero di desideri”. Anche in Lao Tse, ne La regola celeste, e quindi dall’altra parte del mondo, in Cina, c’è l’idea che bisogna abbassare la soglia dei desideri. Proposito di ardua applicazione nel nostro mondo contemporaneo occidentale. Noi siamo apparentemente più felici nella società dei consumi, perché abbiamo possibilità prima inesistenti. E per chi prova o ha provato la miseria l’acquisizione di beni anche inutili, dona una piccola felicità. D’altra parte però è proprio questa frenesia consumistica a mangiarsi il futuro e l’immaginazione dell’umanità. La nostra é una gara spossante: si corre per raggiungere la felicità, e la felicità ci sfugge.
Per molti è motivo di felicità credere in un’eterna giovinezza, tramite il lifting o le conquiste erotico-sentimentali.”
In America latina con il lifting cominciano molto presto: certi genitori regalano un seno nuovo alle figlie che compiono 18 anni. Certo, per tante persone è un sollievo rimandare la vecchiaia, perché pensano che, passato il fulgore del corpo, si rotola, come diceva Shakespeare, nella valle degli anni verso la morte. Nello stesso testo Shakespeare parla delle “trincee” del tempo che sono le rughe e che, oggi, possono essere facilmente eliminate. Il punto è che ci dovrebbe essere un’attesa calma di felicità commisurata alla nostra età. Inutile cercare di essere felici a ottant’anni perché si aspira a correre come un tempo, o perché si vuole un harem. Bisogna rassegnarsi al fatto che ogni età ha un proprio tipo di felicità.
Quando lei è stato veramente felice?
Queste vette si provano poche volte nella vita. Ma una felicità che non è un picco, ma ha un’onda, come si dice nel gergo della statistica, a “cappello di carabiniere”, cioè con ampie falde, sono più frequenti. Io sono stato molto felice da ragazzo, poi quando mi sono sposato, e quando sono nati i miei figli. Mi sento fortunato. Ma ho cercato anche di aiutarmi. Come dice la canzone dei Beatles? “Let it be”. Mi sono comportato così: “ Lascia che sia”. Sono poi particolarmente felice quando mi trovo in viaggio, perché lì c’è la rivelazione di qualcosa d’altro. La felicità è anche un antidoto alla banalità, che è qualcosa di simile a un tranquillante. E i tranquillanti ottundono. Anche la lettura mi procura felicità… Il titolo di un libro dice: “Meglio Platone che il Prozac”. Io penso “meglio Platone”, senza paragoni. Per gli antichi la filosofia non tendeva alla conoscenza. La conoscenza era un mezzo di felicità.
Quando ha incontrato una grande felicità negli altri?
Nelle singole persone, tante volte, a cominciare dai miei studenti in America, dove si fanno i temi scritti. Quando vengono a consegnare i compiti s’intravede già l’esito dalla loro espressione raggiante. Ma un tipo di estesa felicità altrui la ho scoperta in Giappone. A Kyoto, quando fioriscono gli alberi di ciliegio, si svolgono particolari festività chiamate in inglese del Cherry blossom, e la gente passeggia beata per entrare nei templi sotto questa pioggia di fiori di ciliegio bianchissimi. Ricordo il senso, non solo dell’armonia, ma della gioia che si scorgeva. Ed infine, a proposito di armonia, voglio citare la musica. Io ho frequentato il conservatorio, ed una delle più grandi felicità, era di suonare insieme durante i saggi. Quando i musicisti sono d’accordo e suonano si compie questa trasfigurazione che si forma un’anima collettiva. Per usare una metafora è questa anima collettiva che oggi manca troppo spesso. Al centro della filosofia c’è la philia, l’amore, l’amicizia, cioè qualcosa che ci riempie. Che cosa è in termini classici l’amore? L’amore è qualcosa che colma un’assenza, una mancanza ma nello stesso tempo è figlia di Penìa, povertà, e di Poros, la ricchezza. E torniamo al discorso sulla generosità. In Giulietta e Romeo si sente dire: “Più dono e più ho.”
Nel quotidiano prevale invece quest’idea del “do ut des”, io dò quindi devo ricevere qualcosa di equivalente. La felicità invece nasce anche dalla generosità. Io do e non mi preoccupo di ricevere. A me piacerebbe si violasse spesso questo principio di equivalenza. Non solo nella generosità, ma nel passare oltre tante meschinità. La felicità è anche saper distinguere tra valori più o meno importanti”.