di ADRIANO SOFRI

Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l’antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'”anticorpo” di Berlusconi, e forse l’antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un’altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.
Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l’autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava “civile gratitudine”, è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: “Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?”. Già: si può davvero discutere una cosa così?

Cose da pazzi: ma c’è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un’intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c’è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L’ha voluto in parte, in un’altra parte gli è successo – è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola “successo” – e non è più in discussione.

Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: “Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere”. Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un’Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una “patria”, di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: “… Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos’è la vergogna”.

Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell’intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona – il verbo “funzionare” riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all’Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.

Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero – non troppo. Anch’io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film “Gomorra” – e l’avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro – ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com’è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola “bellezza”. La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione – stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: “Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare”. Frase che deve suonare minacciosa all’egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di “né destra, né sinistra”. Non immagina che si tratti d’altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti “di destra” – che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c’è un’inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.

Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell’azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l’inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del “quieto vivere”. Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò – e ottenne, lui senza legittimo impedimento – la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell’economia e dell’etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.

Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, “Italianità”, appena uscito per Laterza. Lo schema dell’opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L’Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d’esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all’anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C’è tanto posto.

La Repubblica

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